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Per un insegnamento femminista dell’architettura

Di Massimo Santanicchia

Direttore del programma di Architettura presso l’Università Islandese delle Arti

Tradotto da Marianna Fatti


Come Irene Santoro ed io abbiamo spiegato in un nostro precedente contributo, lo spazio urbano non è uno spazio neutro. È un luogo pubblico che rispecchia i valori identitari di una comunità. Per questo chi opera per modificare lo spazio urbano, come gli architetti, compie un gesto politico.

Traduco l’articolo, indirizzato agli studenti del corso di laurea in Architettura, di Massimo Santanicchia, che può essere considerato un manifesto dell’Architettura come gesto politico femminista.


Sono un architetto, un attivista, un umanista e docente presso l’Università delle Arti Islandesi. Oltre ad essere anche un instancabile viaggiatore e appassionato botanico, io sono femminista.

Il femminismo teorizza la parità politica, economica e sociale dei generi. Femminismo è sinonimo di cura verso l’altro e per il nostro mondo: costruito o meno, noi abitanti del pianeta Terra siamo tutti intimamente connessi.

I miei valori e la mia situazione di individuo permeano e influenzano i progetti ai quali lavoro come architetto e il mio interagire con studenti e studentesse. Il mio scopo come insegnante è impiegare le mie competenze e esperienza per affrontare le sfide che l’umanità sta affrontando, dal cambiamento climatico alle disuguaglianze sociali, parlare del pensiero architettonico come un pensiero sociale, che si basa sulla relazione che esiste fra il nostro spazio, la nostra società e le conseguenze di questo interscambio.

Nel suo rivoluzionario libro “Pedagogy of the Oppressed”, Paulo Freire scrive “Coloro la cui missione è servire la comunità debbono costantemente auto-esaminarsi”. Il mio processo introspettivo è alla base non solo della mia identità ma anche di ciò che insegno. Mi pongo continuamente questa domanda: come si può insegnare architettura in modo tale da valorizzare la creatività di studenti e studentesse e insieme far lor riconoscere le proprie responsabilità civiche ed ambientali?

Per rispondere a questa domanda è necessario indagare il concetto di architettura. Sembra facile ma anche se questo concetto esiste da molto tempo il suo significato è cambiato. Il pensiero Modernista ha portato alla rivoluzionaria assunzione per cui lo spazio è l’essenza dell’architettura. Prima del 1850 nessuno concepiva lo spazio in sé come la sostanza estetica dell’architettura. Riportare l’architettura al concetto di spazio e di immagine ha cambiato radicalmente la nostra concezione della materia e le nostre aspettative nei suoi confronti.

Oggi concepisco l’architettura non solo come la scienza dello spazio ma come una scienza sociale, concepita in un sistema di relazioni che include fattori culturali, sociali, economici, politici, ambientali, tecnologici, umani. Questa visione mi aiuta a posizionarmi in un contesto più ampio: non sono solo un architetto, un creatore di immagini, sono un attore politico, e comprendo la parola politica come le capacità di una comunità.

L’architettura è un servizio finalizzato al bene comune, l’architettura è res publica. Questa definizione conferisce all’architetto e all'architetta una responsabilità ben più greve di quella che avevo immaginato quando ho iniziato a studiare architettura nel 1992.

È mio dovere quindi come architetto e docente non solo ideare spazi ma immaginarli inclusivi di diverse persone, dialogare quindi assieme, far sì che gli studenti e studentesse sviluppino la confidenza nel condividere le loro esperienze personali come fondamento del progetto architettonico. Immaginare assieme come ogni ricerca architettonica sia un mezzo per abbattere stereotipi e xenofobismi, e per create dialoghi tra voci differenti.

È facile a dirsi, meno a farsi. Nel 2016 mi trovavo a Venezia per l’inaugurazione della Biennale di Architettura. Non vedevo l’ora di partecipare all’evento “Reporting from the Front” curato dall’architetto cileno premio Pritzker Alejandro Aravena, noto per affrontare tematiche sociali, per l’approccio partecipativo all’ideazione dei progetti e i principi di design incrementale che portarono al famoso progetto di Quinta Monroy. Doveva essere una delle Biennali più socialmente inclusive di sempre. E invece durante la presentazione del 16 maggio a rappresentare la diversità e le sfide emergenti della contemporaneità sono stati un gruppo di soli uomini bianchi, caucasici, eterosessuali. Wouter Vanstiphout della Crimson Architectural Historians ha commentato così l’evento: “Assolutamente inconcepibile. La Biennale più politicamente ambiziosa ha un gruppo di rappresentanti composto da soli maschi, il solito gruppetto di mansplainer. Con questo il direttore (Aravena) ha simbolicamente escluso le tematiche di genere e i diritti delle donne da quel ‘fronte’ dal quale dice di parlare. E risparmiateci le scuse, le giustificazioni: le abbiamo già sentite. Cambiate e basta. Meno parole e più fatti, come dicevano le suffragette da quello che era davvero un vero ‘fronte’”.

Sono completamente d’accordo con Vanstiphout: il femminismo è fondamentale in architettura come nella società in generale. Ma il femminismo non riguarda solo le donne. Si tratta di legittimazione, diversità, coraggio e diritti umani universali. Riguarda distruggere stereotipi che si applicano anche agli uomini. Gli uomini subiscono lo stesso radicato sistema di stereotipi che vivono le donne, che ci impone di mettere la nostra carriera di fronte alla nostra famiglia e di sopprimere costantemente le nostre debolezze. Gli stereotipi soffiano sul fuoco delle nostre paure e imprigionano la nostra libertà definendoci in termini binari, in termini di opposizioni, di ruoli e responsabilità separati.

La ricercatrice australiana Kate Manne sostiene del suo recente libro Down Girl. The Logic of Misogynism, che alle donne è richiesto dare attenzione, affetto, ammirazione, cura mentre dagli uomini ci si aspetta di mantenere una posizione sociale, autorità, potere, vantaggio competitivo, riconoscimento pubblico, devozione. Aggiungo che la “donna moderna” deve essere tutto questo contemporaneamente. Questa cosa deve cambiare.

Il femminismo è quella forza che rompe gli schemi culturali e sociali che reggono il sistema patriarcale, un sistema di dominazione che si basa anche sul razzismo, la xenofobia, il classismo, la discriminazione generazionale, l’abilismo, l’omofobia, la transfobia, il capitalismo e l’estrattivismo.

Il femminismo si basa sulla comprensione, empatia e cura. Sulla diversità e la libertà. È per questo che è necessario integrarlo nei nostri studi di architettura. Come possiamo progettare città che contribuiscano alla liberazione dell’umanità e siano socialmente ed ecologicamente sostenibili, senza il femminismo?

Quest’anno ho partecipato al processo di ammissione al corso di architettura dell’Università Islandese delle Arti, insieme ai miei colleghi abbiamo esaminato 74 domande, e intervistato 34 candidati e selezionato 15 studenti. Abbiamo parlato del loro futuro professionale, delle loro aspirazioni, del nostro ruolo e delle nostre responsabilità come architetti e architette e le competenze essenziali che dobbiamo avere. I temi più ricorrenti erano la necessità di servire il bene comune, essere connessi alle comunità locali e consapevoli dei fattori sociali e ambientali. Pensieri molto interessanti che mi hanno fatto capire che i professionisti del domani si prenderanno cura della nostra società e dell’ambiente meglio di come hanno fatto le generazioni precedenti.

Allo stesso tempo, molti dei candidati e candidate si riferivano alla figura dell’architetto come quella di un creatore risoluto, indipendente, individualista, e testardo riproducendo quindi il personaggio ribelle di Howard Roark immaginato da Ayn Rand nel suo “The Fountainhead”. Ma è davvero questa la creatività? Io credo che l’Architettura sia un’attività collaborativa che accomuna architetti, clienti, costruttori, burocrati e cittadini. Per citare le parole dell’architetto inglese Jonathan Sergison: “L’architettura non può esistere senza la complessa serie di collaborazioni sulle quali si fonda”. La creatività è quindi una virtù sociale e non individuale.

La creatività si manifesta attraverso un processo dialogico nel quale le idee sono messe alla prova delle discussioni, in un sistema iterativo che include le differenti parti coinvolte nel progetto. La creatività nasce dalla curiosità personale, dall’umiltà dell’apprendimento, dal senso di responsabilità sociale ed ambientale e il desiderio di mettere i propri interessi personali in secondo piano per il bene non solo della nostra comunità ma del mondo intero.

Questa definizione di creatività non esclude il talento personale ne vuole limitare l’innovazione. Il suo intento è di teorizzare la creatività non come l’ossessiva ricerca dell’originalità, ma come un processo di ricerca finalizzato ad un bene comune. Senza questo intento la creatività è vanità personale.

L’architettura comincia ben prima della costruzione, e continua molto dopo che è questa è terminata. L’architettura è il risultato di molteplici decisioni che riverberano nei nostri spazi culturali e geografici. Ecco perché il ruolo degli architetti e architette non è solo quello di progettare edifici ma soprattutto quello di dare forma al nostro sistema culturale e alla nostra coscienza individuale e pubblica, dimostrando cosa l’architettura è e cosa sia capace di fare. Gli architetti e le architette hanno la missione di creare la cultura della buona progettazione che è la base per una città sana, e questa cultura si forma al meglio se riflette uno spettro di voci e pensieri diversi, non solo la mia idea. Questo è il femminismo in architettura.

Come docente quindi non voglio solamente insegnare come progettare edifici che siano funzionali per il mondo come è ora, che contribuiscono a rafforzare lo status quo, un sistema di sfruttamento economico e di distruzione ecologica. È mia intenzione costruire un dialogo inclusivo in cui tutti gli esseri viventi sono importanti, dove si aspira ad una giustizia sociale, dove le risorse naturali sono valorizzate e protette, ma per raggiungere questo obiettivo più architetti e architette dovrebbero diventare femministi e femministe, e più persone femministi e femministe dovrebbero interessarsi nella progettazione dello spazio che ci circonda.

L’architettura deve andare oltre la scoperta delle forme. L’architettura è più di una serie di oggetti fisici, è la rete di rapporti sociali ed ecologici che formano il processo di vivere assieme armoniosamente, il quale ha luogo in un ecosistema di connessioni che combinano spazi, persone, esseri viventi e il modo in cui interagiscono.

Perciò, per rispondere alla domanda originale: come si può insegnare architettura in modo tale da valorizzare la creatività degli studenti e studentesse e insieme far lor riconoscere le proprie responsabilità civiche ed ambientali?

Durante le mie lezioni spiego che l’architettura non è mai un fatto privato, è un’esperienza corale che si verifica in un preciso momento storico e in una specifica realtà. Insegno che per essere architetti e architette è necessario diventare cittadini cosmopoliti, persone che agiscono per il bene della Terra. Senza questa generosità l’architettura fallisce nella sua missione civica.

Gli studenti devono quindi essere esposti a differenti realtà, comprenderle, esplorarle da un punto di vista storico, sociale, spaziale, e solo dopo di ciò agire o decidere addirittura di non farlo. Rifiutarsi di fare architettura non significa non costruire ma significa farlo in un modo completamente diverso.

L’architettura deve insegnarci a dialogare con altri studenti, professori e persone al di fuori dell’università ed il femminismo ci deve aiutare a costruire insieme una coscienza civica e un’azione sociale per mettere in discussione lo status quo e accendere il coraggio di studenti e professori che serve per perseguire i nostri ideali aldilà dell’ambiente protetto dell’università, in modo da agire nel mondo reale. Si deve comprendere che architettura e femminismo sono processi basati sul dialogo, e condividono il fine di vivere insieme armoniosamente.

L’architettura deve ritrovare le voci femminili di personalità messe in ombra come Frieda Fluck, Pattie Hopkins, Lilly Reich, Eileen Gray, Lina Bo Bardi, Julia Morgan, Marion Mahony Griffin, Charlotte Perriand, Jeanne Gang, Madelon Vreisendorp, Sibyl Moholy-Nagy, Margaret MacDonald MacIntosh, Eleanor Raymond, Catherine Beecher, Alison Smithson, Jane Drew, Anne Griswold Tying, Sophie Tauber-Arp, Aino Aalto, Denise Scott Brown.

Dobbiamo comprendere assieme che la storia non è solo frutto dell’azione di uomini (non donne) eroici e individualisti, ma la storia, anzi le storie, sono costituite in sistemi di connessioni e relazioni fra gli esseri umani e il loro ambiente.

Dobbiamo comprendere che l’obiettivo del femminismo è la giustizia sociale. Tutto ha origine nel modo in cui trattiamo gli altri, gli estranei. Negli anni ‘20 la famosa scuola tedesca di design e architettura Bauhaus faceva pagare una retta di 180 marchi alle donne e di 150 agli uomini. Le donne non avevano accesso ai corsi di architettura, potevano solo scegliere fra i corsi di tessitura, legatoria e ceramica. In seguito, l’unica alternativa fu la tessitura. Sembrano ingiustizie antiche, e invece qui in Islanda uno studente di Architettura e design deve pagare una retta otto volte più alta di uno studente di Legge o Teologia. Dovremmo iniziare ad investire nell’Architettura e nel Design rimuovendo queste asimmetrie, lo considererei un passo importante in un’educazione femminista.

Alla fine del 2017, la Associazione degli Architetti dell’Islanda (AI) contava 368 membri: 215 uomini e 153 donne. Dal 2005 presso l’Università Islandese delle Arti si sono laureati 192 studenti: 80 uomini e 111 donne. Dei 15 studenti ammessi per il corso 2019-2020 11 sono donne e 4 uomini. Il futuro dell’architettura è donna in Islanda, ma questo non determinerà necessariamente un approccio femminista all’architettura se non supportiamo davvero la rigenerazione ambientale, la giustizia sociale, la partecipazione alla vita politica, il benessere nelle nostre città e oltre. Finché concepiamo l’architetto come un uomo eroico ed egoista anziché un agente di dialogo ed interazione.

Dobbiamo tutti essere femministi, se vogliamo vivere in un mondo più giusto.


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