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Differenze in gioco - Genere e Stereotipi a scuola


Intervista a Claudia Bargigia


Ho conosciuto Claudia Bargigia, educatrice, lo scorso luglio al compleanno di un’amica comune e, fra una cosa e l’altra, ci siamo trovate a parlare di questioni di genere. Claudia mi ha così raccontato di un progetto, che aveva realizzato con le scuole tempo prima. Al che ho colto l’occasione per chiederle una piccola intervista su questo laboratorio che poi ho scoperto chiamarsi Differenze in Gioco. Il risultato della nostra chiacchierata è, più o meno, quanto condivido con voi di seguito (a meno di qualche momento goliardico e fuori programma che rimarrà nel bello della diretta).


“Non sono riuscita a risalire all’anno, ma ne saranno passati almeno 7 o 8.

Eravamo [Claudia e due collegh*] in una cooperativa che aveva vinto un progetto delle scuole di Milano sulla sensibilizzazione alle differenze di genere.

Abbiamo lavorato con le classi seconde e terze delle scuole medie e ci siamo detti: come entriamo in una classe di ragazzini così giovani portando un messaggio importante, che è quello del guardarsi con gli stessi occhi a prescindere dal genere, dalle scelte sessuali e di indirizzo sessuale, etc.?

Siamo allora partiti dagli stereotipi, cercando di capire inizialmente cos’è uno stereotipo e poi cercando di destrutturarli – almeno i più importanti – partendo da quelli veicolati dagli spot televisivi.”


Il progetto, mi racconta Claudia, si era strutturato in 3 incontri. “La prima lezione è stata di sperimentazione corporea: abbiamo inserito il teatro in modo che i ragazzi potessero sperimentare determinate situazioni e fare un po’ di giochi di ruolo. Anche perché crediamo fortemente nel fatto che prima di tutto le cose vadano sperimentate col corpo.” Dall’interpretazione di varie statue (sole, caffè, uomo, donna, etc.), era emerso che le interpretazioni delle parole maschili/femminili erano molto simili. “La fotografia della donna era tendenzialmente con le labbra un po’ esposte verso l’esterno, con un atteggiamento un po’ chic, sui tacchi, che sbatte le palpebre. E la figura dell’uomo risultava sempre col braccio forzuto, oppure grezzo con la pancia in avanti”, mi dice Claudia. “Siamo partiti da lì e ci siamo chiesti: è vero che sono tutti così?”

Da qui la riflessione sul significato di stereotipo: “quello che conosciamo, che pensiamo, ma che di fatto non arriva direttamente da noi, che assimiliamo un po’ dall’esterno.

“Durante il secondo incontro siamo partiti con un esercizio: su dei fogliettini rigorosamente azzurri e rosa abbiamo fatto scrivere 5 aggettivi che per i ragazzi rappresentavano il vero uomo e la vera donna e questo è stato forse uno degli esercizi più interessanti. L’uomo tendenzialmente era carta di credito, macchinone, palestrato; la donna invece era le unghie fatte, fa shopping, parrucchiere e vestita bene.


Si passava poi alla visione di alcuni spot pubblicitari, per ragionarci insieme. “A posteriori, mi rendo conto che alcune pubblicità erano anche abbastanza spinte, però ci siamo detti: “magari facciamo vedere qualcosa di forte, però ci siamo lì noi. Quante volte le vedono e non hanno di fianco qualcuno che gliele spieghi?”. Per esempio la Muller in Italia è “Fate l’amore con il sapore”, mentre in Norvegia c’è una mucca che fa il latte.

Perché per vendere un prodotto mi devi far vedere la modella super gnocca?! O per esempio una pubblicità vecchissima in cui lui apre la porta, c’è un covone di polvere, guarda lei e le dice “Questo è per te”. Per arrivare ad alcune molto pesanti, tipo quella della Heineken, dove c’è un corpo di donna nudo che fa avanti e indietro. Un uomo appoggia una birra, un altro ne appoggia un’altra e alla fine ci son tre birre con lo spot “Meglio condividerla”. Sempre il corpo di una donna messo alla mercé del lusso maschile.”

Qui Claudia mi dice: “Comunque cercavamo sempre di portare una certa par condicio: è vero che ci sono tante pubblicità dove la donna è relegata a oggetto, ma ce ne sono anche tante dove l’uomo deve essere super figo, non può sbagliare, deve sempre essere vestito con giacca e cravatta, etc… cercavamo di andare un po’ in pari.”

“La cosa interessante” continua Claudia, “è che, già prima di vedere gli spot, con gli aggettivi che avevano scritto sui fogli rosa e blu avevano già individuato quelle caratteristiche di genere propinate dalle pubblicità.” I ragazzi a questo punto erano stati invitati, lavorando a gruppi, a rivedere gli aggettivi che avevano scelto all’inizio della lezione, per poi raccogliere tutti i dati su un cartellone con rappresentati un uomo e una donna.” Avevo poco prima chiesto a Claudia “Di professioni maschili/femminili i ragazzi non avevano parlato?”, la quale ora mi conferma: “A quel punto è venuta fuori la questione delle professioni: se loro ci dicevano l’uomo è forte, noi dicevamo “Perché, una donna non può fare, che so, la facchina che deve lavorare tutto il giorno al freddo?”. Oppure, “la donna è elegante” e noi: “Perché, l’uomo non può fare il modello o il ballerino di danza classica?”

Qui viene fuori una considerazione di Claudia che mi fa riflettere: “Abbiamo una scuola che allontana ancora il pensiero critico, per cui, anche quando si trovano in gruppo, i ragazzi di quell’età non hanno la voglia di mettersi troppo in discussione.”

Nel terzo incontro, i ragazzi erano stati invitati a creare una loro pubblicità. Il risultato, racconta Claudia, “dipendeva moltissimo dalla classe in sé e dai professori perché alcuni hanno ripreso il tema. Purtroppo queste esperienze sono spesso fatte un incontro oggi e un altro fra 15 giorni e a quell’età lì, se tu non tieni un continuum, tra 15 giorni si son bell’e dimenticati. Per cui in generale il risultato finale dipende anche da quanto viene considerato importante il lavoro che è stato fatto. Il punto è che spesso nella scuola troviamo persone che tendono a pensare al programma e noi siamo gli intrusi che gli rubano le ore di programmazione.”

I ragazzi avevano quindi realizzato cartelloni, alcuni dei lavori in 3D, “creando dei pupazzi, uomo e donna, con le parti che si potevano intercambiare, tipo il seno, la gonna, etc. Dopodiché gli abbiamo proposto alcuni spezzoni di film con messaggio invece positivo, per esempio Billy Elliot, Mrs Doubtfire facendo vedere la parte dove lui dice di essere un uomo e in grado di fare quello che ha fatto, Sognando Beckham, con la ragazzina che vuole diventare calciatrice. Insomma, una micro selezione di film e sono contenta di dire che 8 anni fa era più difficile trovarne rispetto a ora. Ora ce ne sarebbero ancora di più da cui attingere, all’epoca eravamo andati su quelli un po’ scontatoni, ma va bene così, magari altri non li avrebbero conosciuti nemmeno.”

Per concludere, chiedo a Claudia qualche sua riflessione, cominciando da quelle su Diversità in Gioco nello specifico. “Abbiamo sentito che eravamo riusciti a lasciare qualcosa e raccogliere qualcosa. Tra l’altro, poco tempo dopo aver fatto questo progetto, c’era stato il caso di obiettori che non volevano si portassero questi progetti a scuola. Ecco, era il 2014: “Gender a scuola, «comunicazione inappropriata» – Diocesi di Milano: diventa pubblica la richiesta fatta su un sito riservato di segnalare gli istituti in cui si parla di gay e gender.”

Continua Claudia sul progetto: “Questa è la dura realtà del mondo dell’educativa: raramente si riesce a fare un incontro conclusivo, però abbiamo fatto incontri informali. Considera che eravamo due con formazione teatrale e una pedagogista, per cui chiaramente la parte dell’esperienza del corpo per noi è stata fondamentale, è una parte che secondo noi non può mancare perché rimane più impressa, come anche quella creativa dell’ultima lezione, le parti dove ci metti un po’ le mani. Se potessi, in un mondo parallelo, o con dei bambini più piccoli, io porterei dei travestimenti, dei trucchi: tantissime volte mi è capitato nella mia carriera di bambini che mi chiedessero il rossetto e col nido e la materna ho sdoganato tutto, dalla primaria in poi no. Quando entro in una scuola mi permetto di rompere gli schemi, porto dei teli, dei cappelli, … anche senza connotarli. Credo che questo sia un po’ mancato, forse anche perché le medie sono un momento un po’ particolare, dove i ragazzi si vergognano della loro ombra, per cui probabilmente ci vorrebbe un rapporto di fiducia un po’ più lungo. Se avessimo lavorato tutto l’anno con loro allora forse sarebbe stato più facile. Poi alcuni professori rimanevano in aula ed è chiaro che il ragazzo, se rimane il professore, è un po’ più inibito.”



E riscontri dai ragazzi? “Quando si fa questo tipo di attività, di solito hai feedback se i ragazzi si avvicinano personalmente. Noi in ogni caso a fine giornata cercavamo sempre di farci dire cosa era piaciuto e cosa no e tendenzialmente rimanevano più sul concreto, tipo “Non mi è piaciuto quell’esercizio perché ho dovuto per forza fare una cosa.” Se poi qualcuno si avvicina e fa 2-3 domande in più, capisci che un interesse è stato scatenato. In alcune classi è capitato, in altre no. Quello che ho sicuramente trovato in una scuola è stata una grandissima rigidità anche in termini di aule, così squadrate… Lì i ragazzi hanno fatto fatica ad avvicinarsi. E quando arrivavamo c’era quasi un “Ah ma siete voi?!” un po’ sprezzante, che a volte si presenta per paura, perché stavamo rompendo degli schemi. Diventa più facile fare questo tipo di attività quando c’è un rinforzo positivo da parte degli adulti, compresa la famiglia, perché è un lavoro che va tanto contro quello che i ragazzi masticano tutti i giorni.”

Chiedo a Claudia come si potrebbe progettare una scuola più gender-neutral: “Sarebbe da iniziare dalla scuola dell’infanzia, perché è ancora tutto rosa e azzurro. A me interessano tanto anche i libri illustrati per bambini e mi rendo conto che nelle scuole c’è ancora una biblioteca misera in questo senso: ci sono figure ancora fisse, ghiacciate e terrificanti. Per esempio si potrebbe partire da “Piccolo uovo” di Altan, dove ci sono famiglie tutte diverse e un ovettino che non si capisce da che famiglia arrivi. Anche su questo libro c’è stata una polemica pazzesca perché non volevano metterlo nelle scuole. Se non iniziamo da lì, da questa modalità anche romantica di mostrare le possibilità – perché poi di possibilità si parla – siamo spacciati.”

Queste riflessioni ci portano a parlare dell’educazione degli educatori: “Di base anche all’università, nel nostro settore Scienze dell’Educazione e Formazione, le tematiche di genere non vengono trattate tantissimo, a parte i programmi apposta. Ci vorrebbe invece un’educazione di base proprio degli operatori: chiunque lavori nella scuola dovrebbe avere uno sguardo sensibile nei confronti di questo tema. Non è solo additando la giornata della violenza contro le donne che ne usciremo: è un tema talmente ampio e include talmente tante cose che ci vorrebbe una formazione ad hoc, che io stessa vorrei fare. Conosco degli aspetti per mia vocazione, non certo perché qualcosa nelle scuole, di nessun ordine e nessun grado, mi ci ha fatto pensare. E lo dico con rammarico, perché ci sono tanti esami di inclusione, di integrazione e il tema del genere viene sfiorato alla lontana.”

La nostra chiacchierata più o meno si conclude qui, ringrazio tanto Claudia per il tempo che ci siamo dedicate e ci salutiamo: fra tutto s’è fatta ‘na certa e m’è anche venuta fame. Ci risentiamo? Magari! E magari per lavorare… a qualche libro illustrato per l’infanzia.


Flavia Baldinucci

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