(english text below)
In riferimento ai fatti recentemente accaduti, riguardanti la scoperta del gruppo Telegram “Stupro tua sorella” e ciò che ne è (giustamente) conseguito, ho deciso di fermarmi, prendere fiato, e cercare un modo personale per affrontare la questione: per me, non per gli altri. Avrei potuto aderire “ingenuamente” alle iniziative di chi si è attivato, fin da subito, per far sentire la sua voce, condividere una foto con un cartello recante il periodo «è il mio corpo, non il tuo oggetto», far parte del coro e stop. Credo fermamente, invece, che un’adesione consapevole abbia un valore diverso. Questo non significa che non condivida l’iniziativa o che non sia d’accordo con il messaggio da essa promulgato: tutt’altro. Piuttosto, ognuno di noi, attraverso la propria esperienza personale, può contribuire in modo originario al dibattito, favorendo un confronto tra le parti verso il riconoscimento di quel rispetto fondamentale – atavico quanto troppo spesso dimenticato – nei confronti di quell’oggetto astratto che prende il nome di “dignità umana”. Astratto sì, ma soltanto se lo si analizza grammaticalmente; umanamente è di una concretezza oltremodo tangibile, tanto che potremmo localizzarlo in quel “morso” che sentiamo al ventre quando viene negato. Per sostenere quanto sopra affermato, mi permetto di omettere la narrazione del mio stato emotivo, oscillante inizialmente tra rabbia e disgusto per poi approdare saldamente ad una profonda tristezza, per passare ad una dissertazione filosofica del e sul tema.
«È il mio corpo, non il tuo oggetto» è una frase che mi ha folgorato fin da subito: al di là della presa di posizione, tutt’altro che velata, veicolata dal messaggio, vi è presente qualcosa di fondamentale, che rende questa frase importante non solo per una filosofia/ideologia/corrente di pensiero/movimento/stile di vita femminista, ma per chiunque (mi si perdoni l’elenco di sostantivi; è mia opinione che una parola soltanto non possa render merito al femminismo e alle sue molteplici, quanto fertili, sfaccettature). L’universalità ivi contenuta richiama una distinzione fondamentale comparsa per la prima volta a fine ‘800, grazie alle opere di Edmund Husserl, “padre” della fenomenologia e, soprattutto, del metodo fenomenologico: la distinzione fra Körper e Leib.
Il metodo fenomenologico consiste, essenzialmente, nella rivalutazione dell’esperienza personale del soggetto nella ricerca e acquisizione di conoscenza; conoscenza in senso decisamente ampio: dagli attributi che definiscono la tastiera sulla quale, premendo, sto digitando questo testo, a quelli unici che caratterizzano ogni persona. Io sono il punto zero d’orientamento della mia esperienza: l’altezza dalla quale osservo il mondo, il come mi soffermo sui dettagli vedendone alcuni e tralasciandone altri, il fatto che occupo la mia porzione di spazio in questo momento, come qui-ora unico e non replicabile, ecc. Definendo “vissuto” come la singola esperienza, cognitiva ed emotiva, legata al momento presente – momento inteso non come “unità” quantitativa, ma qualitativa di tempo [kairos] – da parte del soggetto, ne consegue che il mio vissuto [Erlebnis] è qualcosa di irripetibile. La meraviglia che proviamo di fronte a certi racconti è da rintracciarsi proprio dall’emersione di questi vissuti - attraverso, ad esempio, i ricordi o l’immaginazione - grazie alle parole del narratore.
L’empatia [Einfühlung], in breve, non è altro che l’intuizione e la comprensione di un vissuto altro da me, una traccia di quel grande e complesso mistero chiamato esistenza [Erleben].
Eppure, oltre a tutto ciò, c’è qualcosa di più semplice. Il mio alzarmi dalla sedia, in preda ad una voglia improvvisa di dolce, per mangiarmi una merendina è diverso dal mio alzarmi dalla medesima sedia per baciare la mia compagna; ancora, osservare e toccare una bottiglia di vetro è diverso dall’osservare e toccare la mia mano o quella di un altro. Se la logica ci impone un lessico filosoficamente corretto, dove l’unico soggetto certo sono io (rimembranza del cogito di cartesiana memoria) e ciò che mi circonda non sono altro che oggetti (ovvero ciò che esiste intorno a me e di cui posso dubitare), allora possiamo dire che esistono diversi tipi di oggetti: esiste l’”Oggetto” che chiamiamo mondo e tanti “oggetti” con caratteristiche peculiari. Ed in questi “oggetti” vi rientrano, di diritto, anche concetti come “Dio”, “anima” e “libertà”. La filosofia, come la biologia e altre scienze, hanno avuto i loro grattacapi nel catalogare – spesso arbitrariamente – lo scibile: sforzo enorme quanto, umanamente (e badate, non scientificamente), inutile. Il vassoio che ho di fronte a me è diverso dal gatto che scorgo sgattaiolare fuori dalla siepe del vicino; a sua volta, il gatto è diverso dagli altri animali che circolano attorno e dentro casa mia; tutti questi animali, sono diversi da me, dal vicino di casa che raccoglie sterpaglie in giardino, ecc.
Esistono oggetti che giacciono in questo mondo ed altri che lo abitano.
Esiste ciò che è soltanto un corpo [Körper] e ciò che si può definire un corpo vivente [Leib].
In altre parole, esistono oggetti “inanimati” e oggetti “animati”: oggetti privi di anima e oggetti con un’anima (come da radice etimologica di entrambi i termini); il fatto che i secondi si muovano, è semplicemente perché l’anima cerca ciò di cui ha bisogno. E questo non è frutto, inizialmente, di qualcosa che necessiti di elucubrazioni reiterate nel tempo, bensì di qualcosa di intuitivo; “metto insieme”, in senso analogico, gli elementi simili: la bottiglia dell’acqua con la bottiglia dell’amaro e con quella di birra, il mio dolore per la morte di un amico con quello del mio amico per la scomparsa del padre. Ecco perché la sofferenza della mia amica, offesa dal proprio superiore, mi tocca nel profondo; ecco perché quella storia d’amore, sotto-trama del film che sto guardando, mi emoziona e mi fa sognare; ecco perché quella bambola demoniaca, attivatasi misteriosamente per correre incontro al protagonista del libro che sto leggendo, mi spaventa tanto; ecco perché...perché è come se...come se ci fossi io.
Il mio corpo, non è un oggetto fra oggetti; non è un corpo qualsiasi fra corpi senza volto; non è qualcosa con il quale si interagisce, manipolandolo, fruendone fin tanto da ottenere ciò che è necessario, per poi metterlo alla berlina; non è una di quelle bambole, non reperibili nei negozi di giocattoli, alle quali è possibile fare di tutto, secondo il proprio piacere e il proprio gusto; non è qualcosa che gli altri possono gestire al posto mio; non è l’insieme delle aspettative altrui (o meglio di una cerchia di persone) che provano diletto nel vedere un linciaggio condiviso dalla propria setta di appartenenza; il mio corpo è un corpo che vive, che respira, che prova emozioni, che esige il proprio spazio, geograficamente e metafisicamente inteso, che desidera e anela, ancor prima che realizzare i propri sogni, al rispetto. Non al rispetto dei samurai. Non al rispetto dei costumi o del mos maiorum. Al rispetto di qualcosa di più fondamentale: la dignità umana.
Indignarsi non è solo necessario, è l’unica risposta umana. Sintetizzando e parafrasando liberamente Hannah Arendt, la banalità del male risiede nella semplicità in cui si osserva una catasta di corpi ammassati vicino ad un forno crematorio, gettati lì, in attesa di essere arsi, senza batter ciglio o, piuttosto, immaginando lo “spazio guadagnato” dopo averli fatti sparire una volta per tutte. Non è distante da quello che accade nel revenge porn: un Leib cessa di essere Körper. Per questo, assieme alla frase «è il mio corpo, non il tuo oggetto», compaiono i volti di chi si è indignato: ad indignarsi non sono capi di bestiame, ma persone. Per questo spero che, al di là dei salti concettuali e della traduzione “a braccio” dal tedesco, vi sia arrivato il perché ho deciso di riflettere prima di aderire. Ritengo sia giunto il tempo di opporsi sì con la dialettica, ma non con qualcosa di sterile; che gli uomini disgustati come me, dimostrino un’adesione più complessa e completa, e non ingenua. Non sono il solo, sono in buona compagnia. A tal proposito, spero mi perdoniate se mi sono permesso di scrivere “il mio corpo” e non “il tuo corpo” senza spiegarlo in anticipo; se sono riuscito nel mio intento, l’universalità della questione sopperirà ad una mancanza di argomentazione in tal senso.
Simone Venturini
An example of applied phenomenology: "It's my body, not your object."
With reference to the events that recently happened, concerning the discovery of the Telegram group "Rape your sister" and what has (rightly) caused, I decided to stop, take a breath, and look for a personal way to deal with the issue: for me, not for others. I could have adhered "naively" to the initiatives of those who activated themselves, right away, to make their voices heard, share a photo with a sign bearing: "it's my body, not your object", be part of the choir and nothing more. I passionately believe, however, that conscious adhesion has a different value. This does not mean that I do not share the initiative or that I do not agree with this message: quite the opposite. Rather, each of us, through one’s own personal experience, can contribute in an original way to the debate, supporting confrontation toward the recognition of that fundamental respect - ancestral and often forgotten - for that abstract object that takes the name of "human dignity". Abstract yes, but only if you analyse it grammatically; humanly it is a concreteness extremely tangible, so much so that we could recognized it in that upsetting feeling we get in the stomach when dignity is denied. To support the above, I take the liberty of omitting my emotional state, initially oscillating between anger and disgust and then firmly ending in a deep sadness, to move on to a philosophical dissertation on and about the theme.
"It is my body, not your object" is a phrase that struck me from the beginning: beyond the position, far from being veiled, conveyed by the message, there is something fundamental present, which makes this phrase important not only for a feminist philosophy / ideology / current of thought / movement / lifestyle, (forgive me the list of nouns; in my opinion a single word cannot give credit to feminism’s multiple and fertile facets) but for anyone. The universality contained therein recalls a fundamental distinction which first appeared at the end of the 19th century, thanks to the works of Edmund Husserl, "father" of phenomenology and, above all, of the phenomenological method: the distinction between Körper and Leib.
The phenomenological method consists, essentially, in the re-evaluation of the subject's personal experience in the search and acquisition of knowledge; knowledge in a very broad sense: from the attributes that define the keyboard on which, by pressing, I am typing this text, to the unique ones that characterize each person. I am the zero point of orientation of my experience: the height from which I observe the world, how I dwell upon details seeing some of them and leaving out others, the fact that I occupy my portion of space right now, as a here- now unique and not replicable, etc.
By defining "past" as the individual experience, cognitive and emotional, linked to the present moment - moment not as a quantitative but qualitative "unit" of time [kairos] - by the subject, it follows that my experience [Erlebnis] is something unrepeatable. The wonder we experience hearing certain stories is to be traced precisely from the surfacing of these experiences - through, for example, memories or imagination - thanks to the words of the narrator. Empathy [Einfühlung], in short, is nothing more than the intuition and understanding of a life other than me, a trace of that great and complex mystery called existence [Erleben].
Yet, beyond all this, there is something simpler. My getting up from the chair, for a sudden desire for dessert, to get a sweet snack, is different from my getting up from the same chair to kiss my partner; yet, observing and touching a glass bottle is different from observing and touching my hand or that of another. If logic requires a philosophically correct lexicon, where the only certain subject is me (remembrance of the Cartesian cogito) and what surrounds me are nothing but objects (that is, what exists around me and which I can doubt), then we can say that there are different types of objects: there is the "Object" that we call world and many "objects" with peculiar characteristics. And these "objects", by right, also include concepts such as "God", "soul" and "freedom".
Philosophy, like biology and other sciences, has had its headaches in cataloguing - often arbitrarily - the knowledge: enormous effort which is humanly (and mind you, not scientifically), useless. The tray in front of me is different from the cat I see sneaking out of the neighbour's hedge; the cat is different from the other animals circulating around and inside my house; all these animals are different from me, from the neighbour who cleans the garden from the old leaves, etc. There are objects that lie in this world and others that inhabit it. There is what is only a body [Körper] and what can be called a living body [Leib]. In other words, "inanimate" and "animated" objects exist: objects devoid of soul and objects with a soul (as from the etymological root of both terms); the fact that the seconds move is simply because the soul is looking for what it needs. And this is not the result, initially, of something that requires thoughts over time, but rather something intuitive; "I put together", in an analogical sense, the similar elements: the bottle of water with the bottle of bitter and with that of beer, my pain for the death of a friend with that of my friend for the father’s passing. This is why the suffering of my friend, offended by her superior, touches me deeply; that's why that love story hidden in the film I'm watching, excites me and makes me dream; that's why that demonic doll, mysteriously activated to run towards the protagonist of the book I'm reading, scares me so much; that's why ... because it's like ... like if it were me.
My body is not an object among objects; it is not just any body among faceless bodies; it is not something with which one interacts, manipulating it, using it to the extent that it is necessary, and then publicly ridicule; it is not one of those dolls, not available in toy stores, to which you can do anything, according to your pleasure and taste; it is not something that others can manage for me; it is not the set of expectations of those people (or rather those of a group of people) who enjoy seeing a lynching shared by their own sect; my body is a body that lives, that breathes, that experiences emotions, that demands its own space, geographically and metaphysically, that desires and yearns for, even before the realization of dreams, respect. Not the samurai kind of respect. Not the respect owed to the customs or the mos maiorum. Respect for something more fundamental: human dignity.
Being indignant is not only necessary, it is the only human response. Freely synthesizing and paraphrasing Hannah Arendt, the banality of evil lies in the simplicity in which we observe a pile of bodies near a crematorium, thrown there, waiting to be burned, without batting an eye or, rather, imagining the "space gained” after making them disappear once and for all. It's not far from what happens with revenge porn: a Leib ceases to be Körper. For this reason, together with the phrase "it is my body, not your object", the faces of those who are indignant appear: indignants are not cattle, but people. This is why I hope that, beyond the conceptual jumps and the translation "off the cuff" from German, the reason why I decided to reflect before joining has been conveyed. I think the time has come to take a stand, sure with dialectics, but not with something sterile; the time has come for disgusted men like me to demonstrate a more complex and complete, and not naive, adhesion. I'm not alone, I'm in good company. In this regard, I hope you forgive me if I allowed myself to write "my body" and not "your body" without explaining it in advance; if I have succeeded in my aim, the universality of the matter will compensate for a lack of argument in this regard.
Simone Venturini
(Translation by Irene Santoro)
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