(english text below)
Questo articolo nasce da una mia confusione.
Sin dalle prime lezioni sulla responsabilità sociale d’impresa, mi è stato insegnato il concetto di greenwashing: una pratica di marketing adottata da molte multinazionali che dichiarano il proprio impegno per la sostenibilità ambientale quando nella realtà non adottano significativi cambiamenti per ridurre il proprio impatto, o peggio ancora usano questa tattica per sviare l’attenzione dagli effetti disastrosi della propria attività produttiva.
Quando ho usato la prima volta il termine “pinkwashing”, credo in una conversazione con dei colleghi, è stata una spontanea improvvisazione. Non avevo in mente una definizione esatta,
ma prendendo anche io in prestito la metafora del whitewashing (imbiancare, coprire con la calce) come nel termine greenwashing, mi riferivo in modo generico a quando le aziende enfatizzano la presenza femminile all’interno del loro organico e/o il loro supporto a progetti per l’uguaglianza di genere quando in realtà le donne sono escluse dagli organi apicali e la cultura aziendale si rivela subdolamente sessista.
Ma Google mi sorprende sempre.
Il termine pinkwashing, in realtà, si riferisce a due fenomeni distinti e molto più specifici.
Pinkwashing e tumore al seno – L’associazione Breast Cancer Action ha coniato nel 2002 questo termine per indicare quelle aziende e organizzazioni che dichiarano la loro adesione alla lotta contro il tumore al seno apponendo il famoso fiocco rosa sui loro prodotti… che però sono potenzialmente cancerogeni. Il termine include anche eventi e campagne sul tema, come le “marce in rosa”. L’esempio più famoso di questo genere di pinkwashing è stato una campagna di Avon nel 2001: i rossetti creati appositamente per la raccolta fondi contro il tumore al seno contenevano probabilmente ingredienti che influivano sulla produzione ormonale favorendo l’insorgenza di tumore. Tuttavia, i casi di pinkwashing sul tumore al seno spaziano dal settore automobilistico a quello dei trapani. Inoltre, spesso solo una piccola percentuale dei fondi raccolti vengono effettivamente devoluti a ricerca e prevenzione, persino nel caso in cui l’ente promotore sia una fondazione. Il pinkwashing di questo tipo non fornisce solo informazioni ingannevoli su una azienda o sui suoi prodotti, ma ha anche la conseguenza indiretta di riformulare la narrativa sul tumore al seno: i consumatori (peggio ancora, i malati) vengono indotti a concentrarsi sulla speranza di una cura alla malattia, e incoraggiati a “vedere il lato positivo” della sopravvivenza al tumore, distogliendo completamente l’attenzione dalla ricerca sulle cause ambientali, dalla prevenzione e dal problema del diverso accesso alle cure ed alla sensibilizzazione di rilevanti gruppi della popolazione svantaggiata.
Pinkwashing e diritti LGBTQ+ . In questo caso, il termine si lega al conflitto israeliano-palestinese.Fu così chiamata la strategia del governo israeliano per oscurare le continue violazioni dei diritti umani commesse durante la sua guerra con la Palestina pubblicizzando invece la sua apertura nei confronti della comunità LGBTQ+. Questo attraverso campagne marketing ed eventi ad hoc che proponevano il paese come la “mecca gay” del Medio Oriente, e un rifugio per i gay palestinesi che, secondo Israele, erano oppressi in un paese non abbastanza civilizzato da riconoscere i loro diritti. In realtà, non solo di fatto la comunità LGBTQ+ palestinese non viene coinvolta in questi programmi, e il paese continua a non riconoscerne i diritti sul piano legale, ma se anche erano i benvenuti come “rifugiati” a Tel Aviv, la loro identità araba e palestinese veniva subdolamente repressa. Questa tattica ha generato enormi proteste organizzate, come Pinkwatching Israel, che sostiene la causa del movimento palestinese “BDS” (Boycott, Divest, Sanction- Boicottare, Disinvestire in e Sanzionare [Israele]). Questo tipo di pinkwashing è stato osservato anche in USA, Francia, Olanda, e rientra nel fenomeno chiamato “omonazionalismo”: persone LGBTQ+ e i loro diritti vengono assimilate a movimenti di (estrema) destra e nazionalisti ed alla loro propaganda anti-islamica e anti-immigrati, con il pretesto di difenderli dal “fanatismo omofobo” delle minoranze religiose.
E quindi? Cos’è il pinkwashing? Scoperte queste due definizioni così differenti, e la loro distanza rispetto a quella che avevo in testa all’inizio della mia ricerca, mi sono chiesta: cosa hanno in comune? Quali sono i fondamenti del pinkwashing? In primo luogo, comparandole con l’originario concetto di greenwashing, entrambe le definizioni di pinkwashing hanno come oggetto persone (donne, queer). Quindi evidentemente il pinkwashing è un corrispettivo “sociale” del greenwashing, ricomponendo così il binomio indissolubile “planet” e “people”, ambiente e società, che accompagna il “profitto” nel celebre paradigma padre della sostenibilità d’impresa.
Inoltre, queste persone sono accomunate da due elementi: il loro appartenere a categorie notoriamente discriminate e la loro sofferenza. E proprio questa caratteristica rende in entrambi i casi il pinkwashing così efficace: una patologia diffusa e grave come il tumore al seno e la tutela della comunità LGBTQ+ e dei suoi diritti sono temi con un carico emotivo enorme, e capaci di suscitare un immediato senso di appartenenza e desiderio di azione da parte dei “target”. Questi tendono quindi a considerare positivamente quelle iniziative che promettono di sostenere la loro causa, da prodotti con fiocchi rosa alle campagne di marketing di governi nazionalisti. Tirando le fila di questo viaggio nel pinkwashing, mi viene in mente una nuova, generale definizione del fenomeno, ma che cerca di cogliere gli aspetti comuni delle varie definizioni: pinkwashing come tattica di marketing per la quale un’organizzazione comunica il proprio impegno nella tutela dei diritti umani (ad esempio, la salute, i diritti civili, le pari opportunità) di una minoranza o di un gruppo solitamente discriminato quando, nella realtà, non attua nessuna concreta azione a questo fino e/o con la propria attività viola quegli stessi diritti o quelli di altri gruppi. Aldilà delle definizioni, il pink e il greenwashing insegnano che è fondamentale adottare un approccio critico al consumo, cercando di verificare sempre il concreto operato – se non le reali intenzioni – di un’organizzazione che si autoproclama paladina dell’ambiente o dei diritti umani. Come? Beh, Google ci sorprenderà sempre.
Testo e traduzione in inglese a cura di Marianna Fatti
This article originates from a misunderstanding. Since my first classes on corporate social responsibility I’ve been introduced to the concept of greenwashing: A marketing technique whereby multinationals declares their commitment to environmental sustainability while in fact not implementing any organisational change to reduce their footprint, or even worse they use these messages to mislead the public from the devastating impacts of their operations. When I first used the term “pinkwashing”, during a conversation with colleagues if I’m not wrong, it came spontaneously. I wasn’t aware of an official definition, but adopting the “withewashing” metaphor as in greenwashing, I was generically referring to those companies that claims an advanced gender balance or their support to gender equality initiatives actually excluding them from executive bodies and subtly enhancing sexist culture. But Google always surprises me. The word “pinkwashing” actually indicates two different, much more specific phenomena. Pinkwashing and breast tumor - The Breast Cancer Action association created this word in 2002 to tag those companies and organisations that boast their support to thefight against breast tumor by displaying the iconic pink ribbon on their products… which are potentially cancerogenic. This term also covers events and campaigns such as races. The most blatant case of pinkkwashing was a 2001 Avon campaign: a fundraising lipstick capsule collection was likely to contain ingredients that influenced hormone functions linked to the development of tumor. However, breast cancer-linked pinkwashing cases span from the automotive sector to fracking drill bits.4 What’s worst is that often only a small percentage of the funds raised find their way to financing tumor research and prevention, even when the sponsor of the campaign is a foundation. Pinkwashing of this type not only misleads on a company and its products, but also inderectly reframes the narrative on breast cancer: Consumers - (even worse, patients) are persuaded to focus on the hope for a cure, encouraged to “see the bright side” of having survived the disease, diverting the attention from the research on environmental causes, prevention, and the issue of the unequal access to cure and awareness raising among entire categories of disadvantaged population. Pinkwashing and LGBTQ+ rights – In this case, the word relates to the war between Israel and Plaestine. It was used to name the strategy of the Israeli government to obscure its continuous violations of human rights during this conflict by advertising instead its welcome to LGBTQ+ community. This through marketing campaigns and ad hoc events that sponsored the country as the Middle East “Gay Mecca”, and a shelter for Palestinian gay people oppressed, according to the Israeli version, by a country not civilised enough to ackowledge their rights. In fact, the Palestinian LGBTQ+ community not only is not effectively engaged in these initiatives, and the country keeps denying its rights on a legal basis, but even when welcomed as “refugees” in Tel Aviv, their Palestinian identity was subtly repressed. This tactic gave rise to massive, organised protests, such as Pinkwatching Israel, which also supports the Palestinian mouvement BDS (Boycott, Divest, Sanction [Israel]). Pinkwashing of this type has been observed also in US; France and the Netherlands, and is a manifestation of a pehnomenon called “homonationalism”: LGBTQ+ people and their rights are co-opted by far right and extremist mouvements to their anti-islamic and anti-immigrant narrative, claiming that they would shield them from the homofobic fanatism of these minorities. So what is pinkwashing? - Found out these definitions and their striking difference from the one I had in mind when I started my research, I asked myself: What do they have in common? Which are the foundamentals of pinkwashing? First, comparing them with the original concept of greenwashing, both definitions have people (women or queer) as their subject. In this sense, pinkwashing is a “social” equivalent of greenwashing, thus integrating the crucial duo “planet” and “people”10 that accompanies the “profit” in the renowed, ground-breaking corporate social sustainability paradigm. Moreover, these people share two elements: Their belonging to categories notoriously discriminated and their sorrow. And this latter characteristics make pinkwashing so effective. Breast tumor and the safeguard of LGBTQ+ community and its rights come with an enormous emotional burden, and thus trigger an immediate sense of belonging and eagerness for action by “targets”. These tend thus to endorse those initiatives that pledge to support their cause, from products with a pink ribbon to marketing campaigns to nationalist governments. To conclude this journey through pinkwashing, a new general definition of this phenomenon comes to my mind, which seeks to catch the common features of the various definitions: Pinkwashing is a marketing tactic whereby an organisation communicates its commitment and support to safeguard the human rights (e.g. health, civil rights, equal opportunities) of minorities or usually discriminated categories while, in fact, does not implement any concrete initiative to this end and/or with its activity undermines these rights or those of other groups. Beyond definitions, pink- and greenwashing demonstrate how crucial it is to adopt a critical approach to consumption, and to strive to verify the actual behaviour – if not real intentions – of organisations that self-proclaims an environmental or civil rights hero. How? Well, Goolgle will always surprise us.
BIBLIOGRAFIA
Siano, A., Vollero, A., Conte, F., & Amabile, S. (2017). “More than words”: Expanding the taxonomy of greenwashing after the Volkswagen scandal. Journal of Business Research, 71, 27-37.
T Questions Before You Buy Pink. https://www.thinkbeforeyoupink.org/about-us/
Lubitow, A., & Davis, M. (2011). Pastel injustice: The corporate use of pinkwashing for profit. Environmental Justice,
139-144. 4 Leon Kaye. The 5 Most Blatant Pinkwashing Cause Marketing Schemes. 10 ottobre 2016. https://www.triplepundit.com/story/2016/5-most-blatant-pinkwashing-cause-marketing-schemes/22226.
Schulman, S. (2011). Israel and ‘pinkwashing. New York Times, 22. https://www.nytimes.com/2011/11/23/opinion/pinkwashing-and-israels-use-of-gays-as-a-messaging-tool.html?_r=0
https://forward.com/opinion/1125/for-gaypalestinians-tel-aviv-is-mecca/
Ghadir Shafie. Pinkwashing. (2015). Israel international strategy and internal agenda. Kohl: A Journal for Body and Journal Research. https://kohljournal.press/pinkwashing-israels-international-strategy
Emily Farag. Feminism 101. What is pinkwashing?.https://femmagazine.com/feminism-101-what-ispinkwashing/ Pinkwatching Israel. http://www.pinkwatchingisrael.com/
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